giovedì 10 settembre 2015

Il mignolo da morta

Settembre. Siedo al tavolo del salotto, tenendo le gambe, per comodità, appoggiate ad una sedia. Mi guardo i piedi.
Complice forse l'aver utilizzato uno smalto verde, le mie unghie mantengono, anche dopo la rimozione dello smalto, una sfumatura livida, poco sana.
Tra tutte le dieci dita dei miei piedi, l'attenzione viene attratta dal mignolo del piede destro.
Cereo il colore, cerea l'apparenza.
Un cilindretto leggermente incurvato di cera roseo-giallastra, terminante in un'unghia ancora bianca, ma ombrata di giallo e verdognolo.
Lo esamino con lo sguardo: sta immobile, proprio come il dito di un morto.
Una profezia di ciò che, senza alcun dubbio, prima o poi, accadrà

martedì 8 settembre 2015

Bici canterina


Per noi emiliani della vecchia guardia la bicicletta, oltre ad essere il mezzo di locomozione preferito, è una compagna di vita.
Se ripenso a tutte le età del mio pellegrinaggio su questa terra, mi rivedo a compierlo su due ruote: rivedo me a cinque anni sdrucciolare con la Graziella rossa fiammante sulla ghiaia ai piedi dell'argine dietro casa mia, sbucciandomi gomiti e ginocchia. Qualche anno dopo, con la stessa bicicletta completamente impantanata, seduta sul ciglio di un marciapiede in un nuovo quartiere sconosciuto, del tutto persa a causa della mia inettitudine nell'orientamento, piangere sconsolata mentre mio fratello (seppi dopo), che era tornato a casa sostenendo che avrebbe avvisato i miei della mia impossibilità di muovere i pedali, stava seduto beatamente davanti alla tv nel salotto. Solo quando mia madre gli chiese dove fossi, si decise a rivelare che ero da qualche parte, bisognosa d'aiuto e così io fui recuperata.
Ancora ricordo, ed è uno dei ricordi più dolci, pazzi e divertenti che io abbia, quando, abitante della periferia e frequentante una scuola media del centro, accompagnavo a casa un'amica, Anna, che abitava in una frazione di campagna. Lei (più magra) saliva dietro, in piedi sul portapacchi, ed io pestavo sui pedali con tutte le mie forze per scalare il cavalcavia che separava la zona rurale da quella cittadina. Era un ponte altissimo e ripidissimo ed io, sudata e impolverata, con i collant avvitati sulla parte inferiore delle gambe e la gonna finita tutta di sghimbescio, con la cerniera mezza aperta, arrivavo alla fine della spinta e non ero nemmeno a metà cavalcavia. Allora la bicicletta, dopo un delizioso istante di immobilità sospesa, iniziava a rinculare, noi a perdere l'equilibrio; riprovavamo lo stesso esercizio fino ad esaurimento delle forze e ci sfasciavamo di risate.
Non so perché lo facessimo e neanche perché fosse così divertente. Ma per me è l'immagine della felicità.
Mi rivedo al liceo, quando, nelle mattine di giugno o di settembre, io e alcune compagne decidevamo, sentendoci molto atletiche, di coprire i 20 km, inclusivi, anch'essi, di un cavalcavia (credo che la passione delle amministrazioni locali per le rotatorie abbia sostituito quella per i cavalcavia), tra casa e scuola in bici. Ricordo che indossavo un vestito a tuta nero, senza maniche, che mi stava benissimo; oppure il completo di cotone lavorato a nido d'ape, stile Capri, con casacca e pantaloni, color verde acqua, che adoravo. Abiti estivi che mi permettevano di godere del sole sulla mia pelle giovane.
All'università la bicicletta era il bene più prezioso dello studente. C'era un gran giro di biciclette rubate.
Una volta, la rubarono anche a me. Qualche giorno dopo il furto un ragazzo dall'aspetto non troppo rispettabile mi chiamò dalla strada, mentre camminavo sotto i portici di via Zamboni. Con fare mellifluo mii offrì di acquistare la bicicletta che stava portando a mano. Io, ovviamente arrabbiata per motivi personali con la sua categoria, gli risposi che, di sicuro, la bici era rubata e lui un ladro. Mi aspettavo che si allontanasse in fretta, timoroso di farsi scoprire da qualche autorità preposta, che passasse di lì in quel momento. Invece, quell'essere losco s'inalberò subito e si mise ad inveirmi contro. Ecco, il periodo universitario mi fece scoprire una cosa che ancora fatico a digerire e che significò per me il passaggio all'età adulta: non sempre chi è nel torto si scusa, si vergogna, o, almeno, tenta di nascondere le proprie azioni e le loro conseguenze. In genere alza la voce e infierisce, sostenendo, non la propria innocenza, ma il diritto a compiere, se vuole, tutto quello che vuole. Fino in fondo.
Il ladro, impermalito perché mi ero permessa di accusarlo di aver rubato, dichiarò per insultarmi, che si vedeva benissimo che ero di Avellino. In quel periodo, molti mi scambiavano per avellinese.
Venendo a tempi più recenti, ora che vivo sola in centro città, le mie biciclette sono terribilmente scalcinate. Mi sembra un ottimo antifurto, l'avere biciclette vecchie, scrostate, con il fanale penzolante ed un moncherino di cavalletto. Non è che io le rovini apposta: semplicemente non le riparo. Mantengo perfettamente funzionanti solo le parti che mi consentono di filare con il vento e di fermarmi quando necessario.
Una sera, una decina di anni fa, da un pulmino, un ragazzino di colore mi apostrofò con la seguente battuta di spirito: <<Signora, lei è bella come la sua bicicletta!>>
Tutti gli occupanti del pulmino si sbellicavano, ma io partii in quarta (pur inforcando una bicicletta sprovvista di cambio) e, tagliando per scorciatoie che conoscevo, mi trovai, al semaforo successivo, davanti al pulmino.
Non mi ricordo cosa urlai per sfogare la mia ira verso l'impertinente:ricordo solo che mi guardava attonito. Il fatto è che, allora, non riuscivo ad accettare che mi si chiamasse signora!
Qualche settimana fa sono uscita di casa con l'intenzione di prendere la bici. Ma la bici non c'era, là dove sta di solito.
Ecco, mi hanno rubato l'ennesima bicicletta.
Per qualche giorno feci finta di niente, ma, dopo due settimane, la mancanza delle due ruote si cominciava a sentire.
Così andai nel negozio del meccanico a comprare una bicicletta usata, una Regina di Romagna arancione metallizzato, pieghevole, con le ruote da 24. Decisi di tenerla in casa, sul balcone, così non me l’avrebbero potuta rubare.
Durante il primo giro, già deliziata dalla leggerezza che ha la vita quando scorre su due ruote, mi accorsi che, per un difetto del campanello, durante il moto la bici mi accompagnava con un dolce, lieve, tintinnio argentino.
Per questo mi consolai della spesa imprevista e forzata e decisi di aver fatto un ottimo affare: la mia bici canta!
La mia felicità per un bene così prezioso, una bici canterina, non è stata incrinata nemmeno il giorno dopo quando, passeggiando con un’amica, vidi la mia bicicletta precedente, quella che credevo mi fosse stata sottratta da qualche malintenzionato, parcheggiata davanti alla biblioteca che avevo frequentato spesso nell’ultimo periodo, e regolarmente chiusa con il mio lucchetto.
E non ho ancora deciso se, su quest’ultima scoperta, sia meglio riflettere a fondo oppure stendere un velo d’oblio.

domenica 30 agosto 2015

Ricetta consolatoria

Siete anzianotti, soli, depressi, semidisoccupati, bruttini? Avete capito di non poter contare nemmeno sulla bellezza interiore, perché, anche da quel punto di vista lasciate a desiderare? Soffrite d'insonnia e trascinate le vostre giornate in una condizione di sonnolenza continua? Gesù vi ha detto che vi aiuta e che vi è vicino, ma che i problemi (e come dargli torto, visto che c'è chi, evidentemente ha molto, ma molto più bisogno d'aiuto rispetto a voi, in questo momento!) dovete smazzarveli voi (Lc 12, 13-21/ Mt 25, 14-30...)?
Se a tutto questo si è aggiunta negli ultimi tempi la proibizione medica di mangiare formaggio (ANCHE IL PARMIGIANO), vi trovate nelle mie stesse condizioni.
Allora, anche se siete belli, giovani, avete successo e tutto il resto, io, generosamente, vi largisco questa RICETTA CONSOLATORIA.

Prendete o create del risotto avanzato (io: halibut, cipolla e spinaci) e fatene delle palline ben pressate. Prendete una melanzana di quelle violette (o uno zucchino) e tagliatela a fiammifero (i pezzetti devono diventare come patatine del McDonalds). Ungete bene gli stick di verdura con un cucchiaio di olio d'oliva poi passateli in un po' di farina e disponeteli su una teglia ricoperta di carta da forno. Aggiungete poco sale. Con la farina che avanza fate una pastella aggiungendovi un po' d'acqua e un po' di sale (se volete), poi passateci dentro le palline di riso. Passate le polpette di riso nel pan grattato. Mettete le polpette nella teglia con i bastoncini di verdura. Mettete una teglia più piccola nella metà libera della teglia grande e disponetevi all'interno, sempre su carta da forno, dei pomodorini tagliati a metà. Conditeli con un poco di olio, origano e sale. Cuocete in forno 20' a 200°, poi togliete i pomodori e cuocete ancora 10/15' sotto il grill.

venerdì 17 luglio 2015

Il monologo di E.

E., due anni e mezzo, faccia d'angelo, è sull'altalena.
Lo spingo un po', poi torno sulla panchina a chiacchierare con sua madre.
Dopo poco la dondola si ferma e lui mi chiama. Mi alzo, gli do qualche spinta, gli faccio solletico, faccio il verso del cane che lo vuole mordere, poi torno a sedermi. Dopo un po' l'altalena rallenta e lui mi chiama.
Così per cinque o sei volte: mi alzo e torno a sedermi; poi gli dico che, o impara a spingersi da solo, o cambia gioco, perché non ho più voglia di andare a spingerlo.
Mentre mi intrattengo con la madre e la sorellina, lo guardo dalla mia panchina: prima cerca di muoversi dimenandosi un po', ma non ottiene l'effetto sperato (però sono orgogliosa del fatto che sia un bimbo così pieno d'iniziativa).
Poi si ricorda della faccia d'angelo che possiede e inizia a fare gli occhi dolci al papà della bambina seduta sull'altalena a fianco della sua, che, fermo come un palo, continua a spingere la figlia sempre alla stessa velocità (lenta, ma comunque meglio di quello che E. riesce a fare da solo).
Ma quel signore non perde l'espressione del viso e la postura di un palo di legno, come quello dell'altalena cui è appoggiato.
Allora E., con grande divertimento mio e della sua mamma, fa gli occhiacci al signore, e sarebbero davvero occhiate capaci di confondere il destinatario con la loro carica di rimprovero e minaccia, se solo il destinatario stesso le percepisse. E invece, l'uomo, resta impassibile.
Infine vediamo E. che, esasperato, getta dalla sua altalena ferma, frasi piene di disprezzo in faccia a quell'uomo insensibile al suo fascino (ma deve pronunciarle a voce molto bassa perché quel signore continua a non accorgersi di niente, mentre noi, dalla panchina, ci ammazziamo dalle risate!).

Piacevolezze della mezz'età

La dottoressa nuova mi ha detto che, per ridurre il colesterolo, devo fare una dieta di questo tipo: niente formaggio, carni rosse, affettati, dolci, pasta all'uovo. Questo significa che la mia, già esigua e difficoltosamente perseguita, vita sociale, sarà distrutta. Inoltre, la mia noiosa e solitaria vita domestica, perderà ogni flebile attrattiva. Alla mia stupida domanda se debba dire addio anche al parmigiano, ha risposto con una luce di gioiosa crudeltà nello sguardo e nel contempo con infinito disgusto per l'idiota che si trovava davanti, che il parmigiano è PIENO DI COLESTEROLO!
Ma non basta: con il cipiglio della maestra che ammonisce la scolaretta, mi ha detto che devo camminare per quattro chilometri ogni giorno e (con l'espressione di chi pensa: se non ce la fai non vali niente, ma è chiaro che non ce la farai"), mi ha chiesto se penso di riuscirci.
Io, ansiosa come sempre di dare la risposta giusta, ho detto, giuliva: "Sì, sì, penso di farcela!".
Invece di un realistico e sincero: "Ma sei fuori di testa???".

sabato 4 luglio 2015

Oggi, proprio oggi.

Il vangelo di oggi sembra fatto per me, ma io non ho mai capito dove si trovano gli otri nuovi. Non so come fare. Qualcuno mi sa dire dove si prendono?

Mt 9, 14-17 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano».

lunedì 29 giugno 2015

Catfish, la Buona Novella

Quando guardo Catfish mi commuovo sempre perché non ho mai capito come attualizzare l'indicazione, che il Signore ci ha dato, di perdonare.
Io non ci riesco.
Proprio non so da dove partire.
Invece Nev, un ragazzo americano (di origini ebraiche, ma non so se questo c'entri), dopo essere stato preso crudelmente per i fondelli via internet da una donna che, dando un'identità falsa, gli ha fatto credere di voler costruire un futuro con lui, è riuscito a guardare in faccia colei che gli aveva fatto del male e a costruire un rapporto nuovo con lei, basato, stavolta, sulla verità.
Questo è lo schema che ripropone in tutti gli episodi del programma tv (è un reality): c'è una storia bellissima, esclusivamente digitale o telefonica, tra due persone; c'è una delle due che non è del tutto convinta della sincerità dell'altra. Qui interviene Nev che chiede ai due protagonisti di incontrarsi di persona e così il bugiardo viene smascherato. A questo punto c'è la crisi grossa: l'offeso si chiude in se stesso, il fedifrago, smascherato, attacca per difendersi e questo rende la vittima ancora più furiosa.
Ecco, qui per me finirebbe la storia, qui, nella mia esperienza, la storia è sempre finita.

Invece, Nev propone ai due di incontrarsi di nuovo il giorno dopo, quando la situazione si sarà calmata e propone all'offeso di provare ad ascoltare quello che l'altro ha da dire su ciò che l'ha spinto a compiere un'azione tanto meschina.
Da lì è tutta una scoperta e, quasi sempre, chi è stato ingannato riesce (quasi naturalmente) a vedere la fragilità ed il dolore dell'altro. Riesce a vedere che la colpa dell'altro (che nel frattempo ha abbandonato l'arroganza ed ha perfino iniziato a chiedere perdono) non è così totale, ma mitigata, giustificata quasi, da problemi, sofferenze, situazioni di vita molto tristi, solitudine.
Così, a volte i due riprendono le rispettive vite separati, ma riconciliati, altre volte nasce un'amicizia.
Ecco, il perdono è possibile.

sabato 27 giugno 2015

Ieri ho rivisto Andrea

Nell’inverno di dieci anni fa una donna ed un uomo camminano nel centro di Bologna, per stradine incredibilmente romantiche, imbiancate dalla neve, intorno il silenzio, forte la sensazione di essere altrove, non nella realtà, ma in qualche posto dentro l’anima di entrambi.
Lei piange poco e parla con voce sommessa a lui che, pieno di stupore, può solo ascoltarla.
Lei, negando le proprie lacrime, come qualcosa di ovvio, così ovvio che neanche vale la pena di nominarlo, gli dice tutte le poesie che possono comunicare lei a lui.

Ha deciso, sconsideratamente, come sempre, di andare fino in fondo al dono di sé che voleva fargli, e mente sul proprio dolore: ora vuole solo che avvenga quel momento di amore che aspettava, che aveva creduto possibile un istante prima che lui le raccontasse che si è innamorato di un’altra Alessandra.

venerdì 26 giugno 2015

Post dal timbro fortemente onirico (in senso negativo).

Dormo poco. Pochissimo. Quasi sempre.
Ma stanotte, proprio niente.
Disperazione. Ascolto come batte il cuore. 
Batte male. Morirò per la mancanza di sonno?
Alle tredici, con il cervello imbottito di voglia di dormire, dopo aver aiutato A. nei compiti vado al McDonald’s per un panino al salmone, quello di cui vedo spesso passare la pubblicità in TV in questi giorni.
La commessa mi assicura che non esiste alcun panino al salmone, non lì da loro.
Me ne vado, e mentre pedalo penso che la mia vita è orribile: un orribile incubo in cui non c’è giustizia, né rispetto e delicatezza e nemmeno un po’ di correttezza e lealtà. E l’unica cosa che posso fare è amare un pochino. Cercare di amare il più possibile, che, come risultato, per me si traduce nell’amare un pochino. E questo amore è la sostanza di cui sono fatti i pochi momenti buoni vissuti questa settimana. Ma per me, niente.  Posso solo cercare di dare, dare dare, per avere indietro qualcosina, ma nulla per me.
Perché penso questo? Cosa mi è successo? Credetemi, qualche motivo ce l’ho.
Un’avvocato che avrebbe dovuto patrocinare i miei amici e che invece si è comportata in maniera vergognosa. Un venditore di auto che mi ha fatto andare fino a Milano per vedere un’auto in vendita nel suo capannone e poi (dopo un viaggio piuttosto costoso), non sapeva dirmi niente del funzionamento della vettura. Il mio medico, un pomposo sbruffone sessantacinquenne che trova sempre molto buffi me e i miei malanni, arriva mezz’ora (almeno) più tardi rispetto all’orario dichiarato e chiacchiera, tutto tronfio, di cose di cui non mi interessa e neanche capisco bene il senso (qualcosa, comunque, di molto ironico nei confronti della categoria dei pazienti). L’anno lavorativo appena concluso fitto di umiliazioni, ma soprattutto, di delusioni. Delusioni, tutti mi deludono. Nel migliore dei casi approssimativi e cialtroni, oppure egoisti ed ottusi, quando non deliberatamente cattivi (di questi non so se ne ho incontrati).
Niente per me.
Mentre, nella mia mente ottenebrata dal sonno, si fa largo qualche timida obiezione a questa spaventosa visione della realtà (ad esempio: cosa intendo con “qualcosa per me”? Un sogno d’amore da romanzetto rosa? Se no, che cosa di reale? Sinceramente non so rispondere a questa domanda), mi vengono in mente tutte le cose “per me” che mi sono state donate questa settimana:
Mia madre ci ha offerto il pranzo al Caffè Concerto (gesto d’amore da mamma: lei non c’era nemmeno) e siamo stati molto bene;
S. con cui ieri ho chiacchierato per ore a ruota libera, rilassandomi tantissimo;
C. mi ha preparato e regalato dei bastoncini da mettere nei vasi per tenere lontani i piccioni;
Quel medico pomposo e fastidioso, però, mi ha detto di me cose che alle mie orecchie suonano come una musica meravigliosa: “le sue analisi vanno bene” e “lei è solo leggermente sovrappeso” (calcando la voce sull'avverbio);
N. che mi ha garantito di voler esserci per me (va bene, se ha sbagliato in passato, cosa vogliamo fare? Non credergli mai più?).

E così ho dovuto chiedermi se, davvero, posso dire che non c’è niente per me o se, ancora una volta, in quest’assurda, vertiginosa, incoerente e terribilmente precaria realtà in cui siamo stati proiettati nostro malgrado, non sia tutta una questione di sguardo.

martedì 16 giugno 2015

Il santo del giorno

MARTEDI 16 GIUGNO 2015 - SANT'AURELIANO di ARLES
Aureliano di Arles (523 o 499 – Lione, 16 giugno 551) è stato un vescovo franco.

Sant'Aureliano di Arles, chiedi a Gesù di mettere un barlume di coscienza nei nostri cugini francesi, tuoi conterranei. Almeno quel tanto da capire che facciamo tutti parte dell'Europa, non solo quando si tratta di avere vantaggi (economici, ovvio), ma anche quando si debbono risolvere dei problemi. Se non fosse la coscienza, ma la lealtà, a mancare, fa lo stesso: chiedi ugualmente a Gesù di provvedere. Amen

Sic transit gloria mundi

Quando ero giovane c’era una canzone, di Raf, credo, e si intitolava: “Cosa resterà”.
Lunedì della settimana scorsa, dopo aver accompagnato Ch. a scuola, mi sono fermata al discount per fare la spesa (la prima giornata di disoccupazione richiede di avere a disposizione generi che permettano di confortarsi un po’ – e infatti mi sono dimenticata gli articoli che mi ero segnata sul biglietto, cipolla e prezzemolo, ed ho invece comprato: tortellini, pomodori secchi, noci e pinoli sgusciati, pancetta affumicata, tè freddo-).
Uscita dal discount ho incontrato M., il fratello maggiore di un anno, di una mia vecchia amica e coetanea.
Ex bello e maledetto, sciupafemmine e spericolato, l'altro giorno stava andando ad un corso per riqualificarsi lavorativamente, lui che si è trovato invalido dopo un incidente di moto.
Tutti si disperano quando compiono quarant’anni, ma senza rendersi conto che siamo sempre noi, riconoscibili, corrispondenti più o meno all’immagine che conosciamo di noi stessi; avvicinandosi ai cinquanta ci si rende conto che quella dei quaranta era una paura tutta psicologica. Il volto di quella paura, arrivato una decina d’anni dopo (secondo la nostra percezione del passare del tempo solo due o tre anni dopo!) lo vediamo ora quando dallo specchio ci scruta, spaventato, un anziano sconosciuto che diventa repellente nel momento in cui realizziamo che sta accampando la pretesa di portare la nostra faccia.
E così, in M. ho potuto leggere la stessa devastazione che mi colpisce: gli occhi sottolineati da evidenti borse, il loro colore diventato vago così come l’intensità dello sguardo che si è persa in una genericità acquosa. Il viso stranamente gonfio, un gonfiore in cui si faticano a ritrovare i lineamenti conosciuti. Anche i capelli non hanno più un colore riconoscibile e ricadono inerti, un po’ a casaccio, attorno al viso.
E mi ricordo di quando, quasi una ventina d’anni fa, ci aveva provato con me ed io, stupida e convinta di non valere niente, ma di poter acquistare valore solo per lo sguardo di un uomo (e mai mi sfiorò la considerazione dell’opportunità di scoprire che uomo ci fosse dietro quello sguardo), passai diverse settimane a bearmi di quel (peraltro molto volgare) tentativo di approccio.
La mia amica S. commentò dicendo: “Avrà voluto fare lo stupido”, sottintendendo che di certo lui desiderava ragazze di livello estetico molto superiore al mio. E invece io non ho dubbi: per un periodo M., il bello maledetto, il bello e impossibile, mi ha desiderato un po’ e quella volta, ci ha provato con me.

Come vorrei poter mostrare alle ragazze di oggi la loro foto di quando arriveranno ai cinquanta ed aiutarle così a chiedersi e a decidere già da subito cosa vogliono fare della loro vita e cioè di quei pochissimi giorni che le separano dal non avere più ciò che loro ora credono eterno: gioventù, freschezza, desiderio sessuale, possibilità di procreare.